Non c’era posto nell’alloggio
«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.
Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia,
perché per loro non c’era posto nell’alloggio»
1. La pace
Il Vangelo del Natale si conclude con un’affermazione, messa in bocca alla schiera di angeli che custodiscono il presepe: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». È il canto che caratterizza, da sempre, il Natale: il canto con cui si dà inizio alla celebrazione della Messa, il canto che anche conclude la preghiera della Notte di Natale, il canto che i cristiani hanno trasformato in un inno tutto loro, che si innalza di domenica in domenica: Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini che egli ama.
Tuttavia è un canto che, con tutta onestà, dovremmo oggi definire “surreale”. Se i due auspici dell’inno sono gloria a Dio e pace alla terra, occorre chiedersi: dov’è andata a finire la pace? Ci basta guardare gli equilibri mondiali: dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, dalla Siria al Sudan sono oltre 200 i conflitti in corso, con oltre 120 milioni di persone in fuga. Ma anche se volessimo guardare vicino a noi, non mancano i conflitti familiari, i problemi generazionali che sfociano in drammi tra genitori e figli, i femminicidi; ci sono famiglie in guerra, spesso semplicemente per l’orgoglio o per i soldi. Ci sono le morti sul lavoro e gli incidenti stradali, causati da assurde fatalità ma tante volte anche da imprudenza e mancanza di rispetto degli altri.
2. La gloria
In un contesto del genere dove sta la “pace” che descrivono gli angeli e che noi qui invochiamo? Dobbiamo forse pensare che manca la “pace” perché è venuto meno lo sguardo di Dio agli uomini “che egli ama”? Perché il Signore ha smesso di guardarci con benevolenza? Perché Dio si è dimenticato di noi?
Io credo che, forse, il punto sia un altro. Gli angeli che rivelano la pace, la mettono però in relazione alla “gloria a Dio”. Cioè, proviamo a chiederci: ci lamentiamo che manca la pace, ma siamo invece in grado di dare “gloria a Dio”, visto che siamo noi quegli uomini “che egli ama”?
Non perché dobbiamo credere che, più diamo gloria a Dio, più aumenti la pace… ma poiché solo nella “gloria di Dio” si realizza la pace. E allora se davvero desideriamo la pace dobbiamo seriamente chiederci quanto viviamo nella “gloria di Dio”, consapevoli che – diceva sant’Ireneo – la gloria di Dio è l’uomo vivente, cioè siamo noi. Come possiamo, allora, provare a recuperare la “gloria di Dio” per poter accrescere la “pace tra gli uomini”?
La liturgia ci consegna un’affermazione, che vi invito a meditare con me e a custodire in questo Natale. Nel Vangelo della Notte, l’evangelista Luca annota che «per loro [per Maria e Giuseppe, e per Gesù] non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7); e, ancora, nel Vangelo del giorno, nel prologo di san Giovanni, sentiremo dire che il Figlio di Dio «venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11).
3. L’alloggio
Non sarà forse che, anche oggi, per Gesù non c’è posto nei nostri “alloggi”? E non mi riferisco soltanto a un discorso di accoglienza, di integrazione – per quanto giusto – bensì a quell’alloggio che ci identifica. L’alloggio non è semplicemente la casa. L’alloggio è tutto ciò che io costruisco attorno a me, è il contesto in cui vivo, è il luogo in cui mi trovo a mio agio. L’alloggio è la mia vita, quella quotidianità che mi caratterizza. È il mio lavoro, i miei amici, la mia famiglia; è il mio studio, lo sport, le chiacchierate e i passatempi. L’alloggio è la città in cui vivo, la strada che percorro, i messaggi che mando. In questo alloggio c’è posto per Dio?
A Betlemme, la vita scorreva normale, le famiglie dormivano tranquille nelle loro case, lavoravano normalmente… ma per Gesù non c’era posto tra loro. Il suo posto è in quella mangiatoia, ai cui lati abbiamo l’abitudine di mettere il bue e l’asinello. Di loro non c’è traccia nel vangelo, ma in un passo del profeta Isaia si dice “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende” (Is 1,3).
Io ho una paura. Che diversamente dal bue e dall’asino, che “conoscono”, noi possiamo abituarci ad essere quel popolo che “non comprende”, e che quindi rischia di non far posto nel proprio alloggio a Dio.
Capite allora quant’è importante che noi recuperiamo la “gloria di Dio”, cioè che torniamo a vivere da cristiani, con un comportamento cristiano, una vita cristiana, una testimonianza realmente cristiana. Sono i cristiani a portare la “gloria di Dio”. Sono i cristiani che – come dice un testo del II secolo –
vivono nella carne,
ma non secondo la carne.
Vivono sulla terra,
ma hanno la loro cittadinanza in cielo.
Osservano le leggi stabilite ma,
con il loro modo di vivere,
sono al di sopra delle leggi.
Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati.
Sono poveri, e rendono ricchi molti;
sono sprovvisti di tutto,
e trovano abbondanza in tutto.
Vengono disprezzati
e nei disprezzi trovano la loro gloria.
Sono ingiuriati, e benedicono;
sono trattati in modo oltraggioso,
e ricambiano con l’onore.
Torniamo, vi prego, ad essere cristiani; noi, che siamo qui dentro, non gli altri. E allora tornerà anche quella “gloria di Dio” e con essa tornerà la pace, che ci fa sentire davvero amati.
4. Un Giubileo di speranza
Questo desiderio lo offriamo al Signore, in questo Natale ma anche in questo Giubileo che oggi per noi ha inizio. Un “anno di grazia” – si dice – cioè un anno in cui siamo spronati a fare ciò che non abbiamo mai fatto nella vita. È questo il vero senso del Giubileo: non una celebrazione – bella, ricca e solenne – ma un ‘opportunità per diventare, come chiede il papa, segni di speranza tra la nostra umanità.
E noi, quale speranza vogliamo chiedere e ottenere, anche attraverso di noi?
La prima speranza che, credo, tutti noi desideriamo è una speranza di pace. Abbiamo bisogno di non chiudere gli occhi davanti ai bambini che muoiono, alle persone che annegano, agli operai e ai badanti che sono sfruttati e malpagati, alle donne che sono offese, ai poveri che sono dimenticati. E nutriamo anche speranza di pace per la nostra società e la nostra politica, troppo spesso fatta di gente che grida, che offende e insulta, e che si dimentica di essere chiamata a servire un Paese e non se stessi.
Promuoviamo anche una speranza di salute, che sappia accorgersi e prendersi cura delle persone ammalate che vivono tra le nostre case, di chi vive in contesti difficili, di chi attraversa momenti di fatica e depressione. Una speranza che incoraggi politiche di sostegno e potenziamento ai nostri ospedali, ai servizi sanitari, affinché nessuno debba rinunciare alle cure, e si smetta di morire per strada o nei pronto soccorso perché i servizi sono inadeguati.
Coltiviamo speranze per i nostri giovani, soprattutto per quelli che sembrano più disimpegnati, chiusi nelle proprie camere a non far nulla tutto il giorno, prigionieri di una tecnologia che li vuole schiavi e privi di un’educazione che li rende liberi. Una speranza per le nostre scuole, per i docenti, per le famiglie, affinché si lavori insieme nel promuovere la formazione dei nostri ragazzi, anche a costo di sacrifici.
Accendiamo una speranza per la nostra terra, che ci educhi a rispettare ciò che Dio ci ha dato, questo paradiso nel quale viviamo – e qui a Milazzo possiamo davvero dirlo, perché viviamo davvero in un paradiso! – ma del quale siamo chiamati a prenderci cura. Che possa esserci in tutti noi attenzione e prevenzione, senza aspettare che siano sempre gli altri a fare le cose, ma cominciando da noi stessi, dalle piccole abitudini, da piccoli gesti che però, se fatti insieme, diventano grandi.
La gloria di Dio è questa. Non ci chiama il Signore a vivere in un fantasioso mondo che sta aldilà di tutto; al contrario, è questa la terra alla quale egli vuole ancora rivolgere pace: pace sulla terra agli uomini che egli ama. La pace inizia da noi. Facciamo sì che la speranza che ci viene data da questo Giubileo trovi uomini e donne che, con coraggio, l’accolgono. Affinché noi – almeno noi – possiamo essere quell’alloggio nel quale il Verbo di Dio continua a farsi carne